Clement Greenberg,
Partsian review, 1939 Una stessa civiltà produce contemporaneamente due cose del tutto diverse come una poesia di T.S.Eliot e una canzoncina Tin Pan Alley, oppure un dipinto di Braque e la copertina del "Sunday Evening Post". Si tratta in tutti e quattro i casi di fenomeni culturali che fanno parte della medesima cultura e sono prodotti dalla medesima società. Ogni legame tra di loro pare tuttavia finire qui. Una poesia di Eliot e una poesia di Eddie Guest: quale prospettiva culturale è ampia abbastanza da consentire di collocarle entrambe in un chiaro rapporto reciproco? Il fatto che esistano simili differenze entro la cornice di una stessa tradizione culturale, che è ed è stata riconosciuta come tale, indica forse che le differenze fanno parte dell'ordine naturale delle cose? Oppure che sono qualcosa di totalmente nuovo, e di specifico della nostra epoca? La risposta implica qualcosa di più che una ricerca nel campo dell'estetica. Mi pare sia necessario esaminare più da vicino, e in maniera nuova, il rapporto esistente tra l'esperienza estetica individuale specifica, e non generalizzata, e il contesto storico e sociale in cui tale esperienza si compie. Ciò che ne verrà fuori risponderà, assieme alla domanda posta in precedenza, ad altre domande forse più importanti. Man mano che una società, nel corso del suo sviluppo, perde la capacità di giustificare l'inevitabilità della sua forma peculiare, quelle nozioni universalmente accettate, delle quali artisti e scrittori devono in gran parte dipendere per comunicare con il loro pubblico, vengono distrutte. Diventa difficile accettare qualsiasi cosa. , e lo scrittore, o l'artista, non è più in grado di valutare la reazione del suo pubblico ai simboli. Tutte le verità che hanno a che vedere con la religione, l'autorità, la tradizione, lo stile e le allusioni sui quali egli lavora vengono messe in discussione. In passato una situazione del genere si è normalmente risolta in un alessandrinismo immobile, in un accademismo in cui le questioni realmente importanti non si toccano poiché implicano il dibattito, e l'attività si riduce a virtuosismo esercitato sui piccoli dettagli formali, mentre tutte le questioni più rilevanti si decidono in base al precedente dei grandi maestri. Gli stessi temi sono meccanicamente sottoposti a variazioni in centinaia di opere diverse, eppure non si produce nulla di nuovo, abbiamo così Stazio, la lirica mandarina, la scultura romana, la pittura accademica, l'architettura neo-repubblicana. Fra i segni di speranza che si intravedono tra le brume della decadenza della nostra società attuale c'è il fatto che noi -o alcuni di noi- ci siamo rifiutati di accettare, per la nostra cultura, quest'ultima fase. Nel tentativo di superare l'alessandrinismo, una parte della cultura borghese occidentale ha prodotto qualcosa di mai visto prima d'ora: la cultura dell'avanguardia. Essa è stata resa possibile da una superiore consapevolezza della storia, e più precisamente dalla comparsa di un nuovo genere di critica della società: la critica storica. Questa critica non ha messo a confronto la società attuale con utopie fuori dal tempo, ma ha ragionevolmente esaminato in termini di storia e di causa ed effetto gli antecedenti, le giustificazioni e le funzioni delle forme che stanno al centro di ogni società. Così si è visto che il nostro attuale ordine sociale borghese non è una condizione perenne, "naturale" della vita, ma è semplicemente l'ultimo termine di una successione di società diversamente ordinate. Nuove prospettive di questo genere divenute parte della coscienza intellettuale più alta nel quinto e nel sesto decennio dell'Ottocento, vennero presto assorbite dagli artisti e dai poeti, anche se, per lo più inconsciamente. Non fu dunque accidentale che il sorgere dell'avanguardia coincidesse cronologicamente, e anche geograficamente, con il primo sicuro sviluppo di un pensiero scientifico rivoluzionario in Europa. È vero che i pionieri della bohème, che allora si identificava con l'avanguardia, dimostrarono ben presto apertamente di non avere nessun interesse per la politica. Cionondimeno, se attorno a loro non fossero circolate delle idee rivoluzionarie, essi non sarebbero mai stati capaci di isolare il loro concetto di "borghese" al fine di definire ciò che essi stessi non erano. E neppure, senza il sostegno morale degli atteggiamenti politici rivoluzionari, avrebbero avuto il coraggio di far valere con tanta aggressività i loro diritti contro i modelli sociali prevalenti. E in realtà di coraggio ne occorreva, poichè l'emigrazione dell'avanguardia dal seno della società borghese alla bohème voleva anche dire l'abbandono dei mercati del capitalismo, in balia del quale erano rimasti artisti e scrittori dopo la scomparsa del mecenatismo aristocratico. (Apparentemente, almeno, volle dire ciò, volle dire morir di fame in una soffitta, anche se, come si vedrà più tardi, l'avanguardia rimase attaccata alla società borghese proprio perché aveva bisogno del suo denaro). Eppure è vero che l'avanguardia, dopo essere riuscita a "distaccarsi" dalla società, seguitò a girare in tondo ripudiando, oltre che la politica della borghesia, anche quella rivoluzionaria. La rivoluzione fu confinata all'interno della società, come parte della confusione di quella lotta ideologica che arte e poesia trovano così poco propizia non appena inizi a coinvolgere quei preziosi "credo" assiomatici sui quali la cultura aveva dovuto fondarsi fino ad allora. Di qui emerse a poco a poco che l'autentica e più importante funzione dell'avanguardia non era la "sperimentazione" ma il trovare un percorso lungo il quale fosse possibile mantenere "in movimento" la cultura fra le nebbie della confusione ideologica e della violenza. Allontanandosi completamente dal pubblico, il poeta o l'artista d'avanguardia cercava di mantenere alto il livello della propria arte vuoi restringendola, vuoi elevandola all'espressione di un assoluto in cui si risolvesse o cui fosse estraneo ogni relativismo e contraddizione. Compaiono sulla scena "l'arte per l'arte" e la "poesia pura" e il soggetto o contenuto, diventa qualcosa da evitare come la peste. È nella ricerca dell'assoluto che l'avanguardia è pervenuta all'arte, e anche alla poesia, "astratta" o "non oggettiva". Il poeta o artista d'avanguardia cerca in effetti di imitare Dio nel creare qualcosa di valido unicamente entro i propri termini, nel modo in cui è valida la natura stessa, nel modo in cui un paesaggio -e non la sua rappresentazione- è esteticamente valido; qualcosa di "dato", di increato, di sciolto da significati di somiglianza o da significati originali. Il contenuto deve dissolversi a tal punto nella forma che l'opera d'arte o di letteratura non può ridursi, nella sua totalità o in una sua parte, ad altro che a se stessa. Ma l'assoluto è assoluto, e il poeta o l'artista, essendo ciò che egli è, predilige alcuni valori relativi piuttosto che altri. Ma questi valori in nome dei quali egli invoca l'assoluto sono valori relativi, sono valori estetici. E così egli si ritrova a imitare non Dio, e qui uso il verbo "imitare" in senso aristotelico, ma le discipline e i processi dell'arte e della letteratura stesse. È questa la genesi dell' "astrattismo". Distogliendo l'attenzione da ciò che è oggetto dell'esperienza comune, il poeta o l'artista la dedica al mezzo proprio del suo mestiere. Il non figurativo o "astratto" , se deve avere una propria validità estetica, non può essere arbitrario o accidentale, ma deve scaturire dall'obbedienza a una limitazione o modello adeguato. Dove esiste un'avanguardia, generalmente troviamo anche una retroguardia. È abbastanza vero: contemporaneamente alla comparsa in scena dell' avanguardia, nell' Occidente industriale spuntò un altro fenomeno culturale, quella cosa a cui i tedeschi hanno dato lo stupendo nome di Kitsch: l'arte e la letteratura popolari e commerciali, con i loro rotocalchi, le copertine delle riviste, le illustrazioni, gli annunci pubblicitari, i romanzi su carta patinata o su carta scadente, i fumetti, la musica Tin Pan Alley, il tip tap, i film di Hollywood ecc. Per qualche ragione questo gigantesco fenomeno è sempre stato dato per scontato. Sarebbe ora di indagare sui suoi come e i suoi perché. Il kitsch è un prodotto della rivoluzione industriale, che nell'Europa occidentale e in America ha urbanizzato le masse e ha instaurato quello che si chiama l'alfabetismo universale. Prima l'unico mercato della cultura ufficiale, distinta dalla cultura popolare, avveniva dentro la ristretta cerchia di coloro che, oltre a saper leggere e scrivere, potevano disporre del tempo libero e degli agi che si accompagnano sempre a ogni genere di raffinatezza culturale. Fino ad allora tutto ciò era inestricabilmente collegato col saper leggere e scrivere ma, con l' introduzione dell' alfabetismo universale, il saper leggere e scrivere divenne una specie di abilità di second'ordine, come guidare l'automobile, e non servì più a mettere in evidenza le inclinazioni culturali di una persona, visto che non corrispondeva più alla raffinatezza e al gusto. I contadini che si stabilivano in città sotto forma di proletariato e di piccola borghesia imparavano a leggere e scrivere per ragioni utilitaristiche senza riuscire a procurarsi la disponibilità di tempo libero e gli agi necessari per poter usufruire della cultura urbana tradizionale. Perdendo tuttavia il gusto per la cultura popolare, il cui retroterra erano le campagne, e scoprendo contemporaneamente una nuova dimensione, quella della noia, le nuove masse urbane esercitarono una pressione sulla società richiedendo un genere di cultura adatto al loro consumo. Per far fronte alla domanda del nuovo mercato, venne inventato un nuovo prodotto, la cultura "ersatz", il kitsch, destinato a coloro che, insensibili ai valori della vera cultura, sono tuttavia avidi di quelle distrazioni che soltanto la cultura, di qualsiasi genere essa sia, è in grado di fornire. Il kitsch, utilizzando come materia prima i simulacri degradati e accademizzati della vera cultura, gradisce e coltiva questa insensibilità che è la fonte stessa del suo profitto. Il kitsch è meccanico e opera secondo formule. Il kitsch è esperienza vicaria e false sensazioni. Il kitsch muta a seconda dello stile, ma resta sempre lo stesso. Il kitsch è la sintesi di tutto quanto c'è di spurio nella vita del nostro tempo. Il kitsch pretende di non volere nulla dai suoi clienti, tranne il loro denaro, non chiede neppure il loro tempo. La condizione preliminare del kitsch, la condizione senza la quale il kitsch non sarebbe possibile, è la completa disponibilità di una tradizione culturale matura delle cui scoperte, acquisizioni e piene consapevolezze il kitsch possa approfittare per i suoi propri scopi. Da essa il kitsch ricava dispositivi, artifici, stratagemmi, pratiche, temi, li converte in sistema e scarta il resto. Esso trae la propria linfa vitale, per così dire, da questa riserva di esperienze accumulate. È questo che si intende dire in realtà quando si afferma che l'arte e la letteratura popolari di oggi sono state l'arte e la letteratura audaci ed esoteriche di ieri. Naturalmente una cosa del genere non è vera. Ciò che si vuol dire è che, quando è trascorso abbastanza tempo, il nuovo viene saccheggiato per delle nuove bevande miste, dei "cocktails" che vengono poi annacquati e serviti come kitsch. Evidentemente tutto il kitsch è accademico e, per converso, tutto ciò che è accademico è kitsch. Infatti ciò che viene chiamato accademia, in quanto tale non ha più esistenza autonoma, ma è diventato il solino inamidato del kitsch. I metodi industriali soppiantano l'artigianato.Potendo venir prodotto meccanicamente, il kitsch è diventato parte integrante del nostro sistema produttivo, mentre la vera cultura non potrebbe mai esserlo, se non accidentalmente. Il kitsch è stato capitalizzato con enormi investimenti che devono dare profitti adeguati; è costretto a estendere, oltre che a mantenere, i propri mercati. Sebbene il kitsch sia praticamente il piazzista di se stesso, cionondimeno è stato creato un vasto apparato di vendita che esercita la sua pressione su ciascun membro della società. Vengono montate trappole anche in quelle zone che, per così dire, sono le riserve della cultura autentica. Oggi, in un paese come il nostro, non basta avere l'inclinazione per la cultura, ma è necessario essere posseduti da una vera passione per avere la forza di resistere agli articoli falsi che ci circondano e ci incalzano da quando siamo grandi abbastanza da guardare i giornalini. Il kitsch inganna. È di molti livelli diversi, ed alcuni di questi sono abbastanza alti per essere piuttosto pericolosi per l'ingenuo cercatore di veri lumi. Una rivista come il "New Yorker" che, fondamentalmente, è kitsch d'alta classe per un mercato di lusso, trasforma e diluisce una gran quantità di materiali dell'avanguardia a proprio uso e consumo. Né ogni singolo elemento del kitsch è completamente privo di valore. Ogni tanto il kitsch produce qualcosa di valido, qualcosa che ha un autentico sapore popolare; e questi casi accidentali e isolati hanno ingannato la gente, che peraltro dovrebbe avere più buon senso. Gli enormi profitti procurati dal kitsch sono fonte di tentazione per l'avanguardia stessa, e i suoi membri non hanno sempre saputo resistervi. Va a finire che alcuni scrittori e alcuni artisti ambiziosi modificano il loro lavoro sotto la pressione del kitsch, sempre che non vi soccombano completamente. E allora compaiono degli sconcertanti casi limite, dei romanzi di successo come Simenon in Francia e Steinbeck nel nostro paese. Il risultato netto è sempre, in ogni caso, a scapito della cultura autentica. Il kitsch non è rimasto confinato nelle città in cui è nato, ma si è allargato a tutto il paese, spazzando via il folclore. Né ha mostrato di rispettare i confini geografici o quelli delle varie culture nazionali. Come gli altri prodotti di massa dell'industria occidentale, ha fatto trionfalmente il giro del mondo, ponendo in disparte e deturpando le culture locali di una colonia dopo l'altra, cosicché ora sta per diventare una cultura universale, la prima cultura universale mai vista. Oggi i cinesi come gli indios del Sud America, gli indiani come i polinesiani, sono giunti a preferire le copertine delle riviste, le rubriche dei rotocalchi e le ragazze dei calendari ai prodotti della propria arte indigena. Come si spiega questa virulenza del kitsch, l'irresistibile attrattiva da esso esercitata? Naturalmente il kitsch fatto a macchina costa meno dell'articolo indigeno fatto a mano, e il prestigio dell'Occidente ha un suo peso; ma perchè il kitsch è un articolo d'esportazione tanto più redditizio di Rembrandt? Dopotutto l'uno può venir riprodotto altrettanto a buon mercato che l'altro. Nel suo ultimo articolo sul cinema sovietico comparso sulla "Partisan Review", Dwight MacDonald rileva che il kitsch è diventato, negli ultimi dieci anni, la forma di cultura predominante nella Russia sovietica. Egli dà la colpa di ciò al regime politico, non solo perchè il kitsch rappresenta la cultura ufficiale, ma anche perchè è effettivamente la cultura dominante, la più popolare, e cita il seguente passo da "The Seven Soviet Arts" di Kurt London: "L'atteggiamento delle masse nei confronti dell'arte vecchio stile, come quello nei confronti di quello nuovo, probabilmente dipende essenzialmente dal genere d'istruzione offerta loro dalle rispettive repubbliche". MacDonald prosegue affermando: "perchè dopo tutto, dei contadini ignoranti dovrebbero preferire Repin (un esponente del kitsch accademico russo in pittura) a Picasso, la cui tecnica astratta è almeno altrettanto poco pertinente alla loro arte primitiva popolare quanto lo stile realistico del primo? No, se le masse si affollano nel Tret'jakov (il museo moscovita d'arte contemporanea russa: kitsch), ciò è dovuto in gran parte al fatto che sono state condizionate a rifuggire dal "formalismo" e ad ammirare il "realismo socialista". In primo luogo non si tratta di una semplice questione di scelta fra il vecchio e il nuovo, come London sembra pensare, ma di una scelta fra il cattivo, il moderno vecchio e l'autenticamente nuovo. L'alternativa a Picasso non è Michelangelo, ma il kitsch. In secondo luogo né nella Russia arretrata né nell'Occidente avanzato le masse preferiscono il kitsch semplicemente perchè i loro governi le condizionano in quel senso. Dove i sistemi scolastici si prendono il disturbo di dire qualcosa sull'arte, ci dicono di rispettare gli antichi maestri, non il kitsch; eppure alle pareti di casa nostra attacchiamo Maxfield Parrish o i suoi equivalenti anzichè Rembrandt e Michelangelo. E inoltre, come rileva lo stesso MacDonald, quando attorno al 1925 il regime sovietico incoraggiava il cinema d'avanguardia, le masse russe continuavano a preferire i film di Hollywood. No, il "condizionamento" non spiega la potenza del kitsch. Tutti i valori sono valori umani, e anche in campo artistico, come negli altri campi, essi sono relativi. Eppure pare che sia sempre esistito, attraverso i tempi, una specie di accordo generale entro la parte colta dell'umanità circa ciò che è arte e ciò che è scadente. I gusti sono mutati, ma non oltre certi limiti; gli esperti contemporanei concordano con quelli giapponesi del diciottesimo secolo nell'affermare che Hokusai fu uno dei più grandi artisti del suo tempo; conveniamo persino con gli antichi egizi sul fatto che l'arte della terza e quarta dinastia fosse quella più degna di essere presa a modello dagli artisti successivi. Può darsi che siamo giunti a preferire Giotto a Raffaello, eppure non neghiamo che Raffaello sia uno dei più grandi pittori del suo tempo. È dunque sempre esistito un accordo generale, e ritengo che questo accordo sussista tutt'ora, sulla distinzione esistente fra i valori che si possono ritrovare soltanto nell'arte e quelli che si possono trovare altrove. Il kitsch, grazie a una tecnica razionalmente organizzata che ricorre alla scienza e all'industria, ha in pratica cancellato questa distinzione. Vediamo per esempio che cosa accade quando un contadino russo incolto sta, con ipotetica libertà di scelta, di fronte a due dipinti, uno di Picasso e uno di Repin. Nel primo egli vede, diciamo, un gioco di linee, di colori e di spazi che rappresenta una donna. La tecnica astratta, per accettare l'ipotesi di MacDonald, che peraltro mi lascia abbastanza perplesso, gli ricorda un po' le icone che ha lasciato nel suo villaggio, e si sente attratto da qualcosa che gli è familiare. Possiam persino supporre che egli intuisca confusamente qualcuno dei grandi valori artistici che i raffinati colgono in Picasso. Poi guarda il dipinto di Repin e vede una scena di battaglia. La tecnica in se non gli è familiare, ma ciò ha scarso peso per il contadino poichè, nel quadro di Repin, egli scopre improvvisamente dei valori che gli sembrano molto superiori a quelli che è abituato a vedere nell'arte dell'icona; ed è in parte dalla novità stessa della cosa che scaturiscono questi valori: che sono quelli dell' immediata riconoscibilità, del miracoloso e del congeniale. Nel dipinto di Repin il contadino riconosce e vede le cose nello stesso modo in cui le vede e le riconosce fuori dalla tela, non esiste soluzione di continuità fra l'arte e la vita, nessun bisogno di accettare una convenzione e dire a se stesso che l'icona rappresenta Gesù, anche se non ricorda poi molto la figura di un uomo. Che Repin sappia dipingere in maniera talmente realistica che l'identificazione è immediata, senza sforzo alcuno da parte dello spettatore, questo si ha del miracoloso. Il contadino si compiace anche della ricchezza di significati di per sé chiari che rinviene nel dipinto: il dipinto "racconta una storia". In confronto, Picasso e le icone sono talmente austeri e privi di interesse. Per di più Repin innalza la realtà e la rende drammatica: il tramonto, lo scoppio delle granate, uomini che corrono, uomini che cadono. Non è più questione di icone o di Picasso. Repin è quello che il contadino vuole, e non vuole nient'altro che Repin. (Oggi potremmo dire: Hollywood è tutto ciò che la gente vuole e la gente non vuole nient‘ altro che Hollywood n.d.Eleo) È una fortuna, d'altronde, per Repin, che il contadino russo sia protetto contro i prodotti del capitalismo americano, perché in caso contrario, avrebbe scarsa possibilità di successo in confronto a una copertina del "Saturday Evening Post" disegnata da Norman Rockwell. Infine possiamo dire che lo spettatore colto colga in Picasso gli stessi significati che il contadino coglie in Repin, dal momento che ciò che al contadino piace di Repin è pur sempre, in un certo qual modo, arte, sia pure di livello un po' più basso, ed egli è spinto a guardare i quadri dal medesimo istinto che spinge lo spettatore colto. Ma i valori fondamentali che lo spettatore colto ricava in seconda istanza, come risultato della riflessione sull'impressione immediata lasciata dai valori plastici. È solo a questo punto che entrano in gioco elementi come il riconoscibile, il miracoloso, il congeniale. Essi non sono immediatamente o esteriormente presenti nel dipinto di Picasso, ma vi devono venir proiettati dallo spettatore, abbastanza sensibile da saper regire di fronte alle qualità plastiche. Queste appartengono all'effetto "riflesso": In Repin, d'altra parte, l'effetto "riflesso" è già stato incluso nel dipinto, pronto per il godimento immediato da parte dello spettatore. Mentre Picasso dipinge la causa, Repin dipinge l'effetto. Repin opera una semplificazione dell'arte in favore dello spettatore e gli risparmia la fatica, gli fornisce, per il godimento dell'arte, una scorciatoia che evita ciò che è necessariamente difficile nella vera arte. Repin, ovvero il kitsch, è arte sintetica. Si può sostenere la stessa tesi per ciò che riguarda la letteratura kitsch: a chi è insensibile essa fornisce delle esperienze sostitutive con immediatezza e di gran lunga superiore a quanto non sappia fare la letteratura seria. Eddie Guest e le "liriche d'amore indiane" sono più poetici di T.S.Eliot e di Shakespeare. Se l'avanguardia imita i procedimenti dell'arte, il kitsch come abbiamo visto, ne imita gli effetti. La nitidezza di questa antitesi corrisponde all'enorme distanza (e nel contempo la definisce) che separa l'uno dall'altro due fenomeni culturali contemporanei come l'avanguardia e il kitsch. Questa distanza, troppo grande per essere colmata da tutte le infinite gradazioni del "moderno" e del kitsch "moderno", corrisponde a sua volta a una distanza sociale che nella cultura formale, come in altri campi della società civile, è sempre esistita, e i cui due termini convergono e divergono in rapporto fisso con la crescente o decrescente stabilità di una società. Sono sempre esistite da un lato la minoranza di quelli che detengono il potere, e dunque dei colti, e dall'altra la grande massa degli sfruttati e dei poveri, e dunque degli ignoranti. La cultura raffinata è sempre appartenuta ai primi, mentre i secondi hanno sempre dovuto accontentarsi di una cultura popolare o elementare oppure del kitsch. In una società stabile che funzioni abbastanza bene da mantenere fluide le contraddizioni fra le classi, questa dicotomia culturale diventa in qualche modo più sfumata. Le verità assiomatiche dei pochi sono condivise dai molti; questi hanno una fede superstiziosa in ciò in cui i primi credono con un certo distacco. E in questi momenti della storia le masse riescono a provare meraviglia e ammirazione per la cultura dei loro signori , non importa quale alto livello essa tocchi. Ciò si applica, se non altro, alla cultura plastica, che è accessibile a tutti. Nel Medioevo le arti plastiche aderivano, per lo meno in maniera puramente formale, al minimo comun denominatore dell'esperienza. Ciò rimase in certo qual modo una constante fino al Seicento. Era disponibile, per essere imitata, una realtà concettuale universalmente valida, con l'ordine della quale l'artista non poteva interferire. Il contenuto dell'arte era stabilito da coloro che commissionavano le opere d'arte, che non erano prodotte, come nella società borghese, a scopo di speculazione economica. E grazie al fatto stesso che i contenuti fossero predeterminati, l'artista era libero di concentrarsi nel mezzo. Non era necessario che fosse un filosofo o un visionario, bastava che fosse un abile artigiano. Fino a che esistette il consenso generale su ciò che era il soggetto più degno nell'arte, l'artista fu dispensato dalla necessità di essere originale e creativo circa l' "argomento" da trattare, e poté dedicare tutte le sue energie ai problemi formali. Per lui il mezzo diventava, a livello privato e professionale, il contenuto stesso della sua arte, esattamente come oggi il mezzo è il contenuto pubblico dell'arte del pittore astrattista, con la differenza, però, che l'artista medievale doveva nascondere al pubblico i suoi problemi professionali, era sempre costretto a sopprimere l'elemento personale e professionale e a subordinarlo alla riuscita dell'opera d'arte rifinita e ufficiale. Se, come membro normale della comunità cristiana, egli provava delle emozioni personali sul soggetto astratto, ciò contribuiva soltanto all'arricchimento del significato che l'opera d'arte assumeva agli occhi del pubblico. Soltanto con il Rinascimento le riflessioni personali vennero accettate come legittime, sempre che fossero mantenute, beninteso, entro i limiti di ciò che era semplicemente e universalmente riconoscibile. E soltanto con Rembrandt incominciò a comparire la figura dell'artista "solo", isolato cioè nella sua arte. Ma anche nel corso del Rinascimento, e fino a che l'arte occidentale continuò a cercare di perfezionare le proprie tecniche, le vittorie dell'artista in questo campo potevano soltanto essere segnate dalla riuscita dell'imitazione realistica, poiché non c'era a disposizione alcun altro criterio oggettivo. Così le masse riuscivano ancora a trovare l'arte dei loro signori oggetto d'ammirazione e meraviglia. Persino l'uccellino che becchettava il frutto nel dipinto di Zeus era una forma di applauso. È un luogo comune quello per cui l'arte diventa come il caviale, per il grosso pubblico, quando la realtà da essa imitata non corrisponde più neanche grossolanamente, alla realtà che quello stesso pubblico riconosce. Anche allora, però, il rancore che l'uomo comune potrebbe sentire è soffocato dalla soggezione che egli prova nei confronti dei mecenati delle arti. Soltanto quando diventa insoddisfatto dell'ordine sociale che questi amministrano, egli comincia a criticare la loro cultura. Allora, per la prima volta, il plebeo trova il coraggio di dare apertamente voce alle proprie opinioni. Tutti, dal consigliere anziano dell Tammany Hall all'imbianchino austriaco, si sentono autorizzati a dire la propria sull'arte. Il più delle volte, questo rancore nei confronti della cultura si ritrova dove l'insoddisfazione sociale ha carattere reazionario e si esprime mediante i revival e il puritanesimo, e infine col fascismo. In questo caso s'incomincia a parlare contemporaneamente sia di revolver e di fiaccole sia di cultura. In nome della divinità o della sanità della razza, nel nome delle vite semplici e delle solide virtù, s'incominciano a fare a pezzi le statue. Ritorniamo per un momento al nostro contadino russo e supponiamo che, dopo che egli ha scelto Repin preferendolo a Picasso, l'apparato educativo statale venga a dirgli che ha sbagliato, che avrebbe dovuto sceglier Picasso, e che gli spieghi il perchè. È possibile, per lo Stato sovietico, farlo. Ma stando le cose come stanno in Russia (come in qualsiasi altro paese), il contadino scopre ben presto che, essendo costretto a lavorare duramente tutto il giorno per sopravvivere, e vivendo in un ambiente rozzo e privo di agi, non può disporre del tempo libero, delle energie e degli agi necessari per prepararsi a godere Picasso. Questo piacere implicherebbe, dopo tutto, un notevole "condizionamento". La cultura alta è una delle creazioni umane più artificiose e il contadino non sente in se nessuna "sollecitazione" spontanea che lo spinga verso Picasso a costo di tutte le difficoltà che incontrerebbe. Alla fine il contadino, quando ha voglia di guardare dei dipinti, ritorna al kitsch, poiché il kitsch lo può apprezzare senza nessuna fatica. L'apparato statale è impotente, in materia, e tale rimarrà fino a che i problemi della produzione non siano stati pienamente risolti in senso socialista. La stessa cosa vale, naturalmente, per i paesi capitalisti, e fa si che l'idea di arte per le masse venga considerata come pura demagogia. Oggi, quando un regime politico attua una politica culturale ufficiale, lo fa a fini demagogici. Se oggi il kitsch è la tendenza generale della cultura in Germania, in Italia e in Russia, non è perché i rispettivi governi sono sotto il controllo di forze reazionarie, ma perché il kitsch è la cultura delle masse di quei paesi, come lo è ovunque. L'incoraggiamento del kitsch è soltanto uno dei modi indolori mediante i quali i regimi totalitari cercano di ingraziarsi il popolo asservito. Dal momento che questi regimi, anche se volessero farlo, non potrebbero elevare il livello culturale delle masse se non mediante la capitolazione al socialismo internazionale, essi lusingano le masse abbassando la cultura al loro livello. È questa la ragione per cui l'avanguardia è stata messa fuori legge, e non tanto perchè é una cultura alta sia di per sé una cultura critica. (Che l'avanguardia possa o non possa fiorire sotto un regime totalitario non riguarda questa tesi). Nella realtà dei fatti, dal punto di vista degli stalinisti e dei fascisti la maggior seccatura dell'arte e della letteratura d'avanguardia non sta nel fatto che sono troppo critiche, ma che sono troppo "innocenti", che è troppo difficile caricarle di efficaci significati propagandistici, e che il kitsch è molto più duttile a questo scopo. Il kitsch tiene il dittatore in contatto più stretto con l'anima del popolo. Se la cultura ufficiale fosse di livello più alto di quello generale di massa, correrebbe il rischio di restare isolata. Cionondimeno, se fosse concepibile che le masse richiedessero arte e letteratura d'avanguardia, Hitler, Mussolini e Stalin non esiterebbero un istante a cercare di soddisfarle. Hitler è il peggior nemico dell'avanguardia, sia sul piano dottrinale sia su quello pratico, ma ciò non impedì a Goebbels, fra il 1932 e il 1933, di corteggiare assiduamente scrittori e artisti d'avanguardia. Quando il poeta espressionista Gottfried Benn aderì al nazismo, fu accolto con grande plauso e ostentazione, sebbene proprio allora Hitler denunciasse l'espressionismo come una forma di "kulturbolschewismus". Ciò accadeva in un momento in cui i nazisti pensavano di poter trarre vantaggio dal prestigio di cui godeva l'avanguardia presso il pubblico colto tedesco, e considerazioni pratiche di questo genere, grazie alla scaltrezza politica dei nazisti, hanno sempre avuto il sopravvento sulle inclinazioni personali di Hitler. Successivamente i nazisti compresero che in fatto di cultura era più pratico consentire ai desideri delle masse che a quelle dei padroni; questi ultimi, quando fu questione di conservare il potere, furono pronti a sacrificare la loro cultura, così come erano stati pronti a sacrificare i loro principi morali, mentre le masse, proprio in quanto veniva loro sottratto ogni potere, dovevano essere lusingate in ogni altro modo possibile. Fu necessario incrementare, secondo uno stile molto più grandioso che non nelle democrazie, l'illusione che in realtà fossero le masse a governare. La letteratura e l'arte che piacevano alle masse, e che erano da queste capite, erano destinate a venir proclamate le uniche vera arte e vera letteratura, e ogni altro tipo d'arte e letteratura doveva essere soppresso. In simili condizioni individui come Gottfried Benn, non importa con quanto ardore sostenessero Hitler, diventavano un ostacolo, e nella Germania nazista non se ne è più sentito parlare. Possiamo allora vedere che, sebbene da un certo punto di vista l'atteggiamento reazionario personale di Hitler e di Stalin non sia affatto un elemento secondario nel ruolo politico da essi sostenuto, in un'altra ottica esso rappresenta soltanto un fattore accidentale nella determinazione delle politiche culturali dei loro regimi. Il loro conformismo personale aggiunge semplicemente brutalità e tenebrosità a una politica culturale che sarebbero comunque costretti a perseguire, costretti dalla pressione di tutte le loro altre politiche, anche se personalmente fossero devoti alla cultura d'avanguardia. Ciò che l'accettazione dell'isolamento della rivoluzione russa costringe Stalin a fare, Hitler è costretto a farlo in seguito alla sua accettazione delle contraddizioni del capitalismo e al suo tentativo di bloccarle. Quanto a Mussolini, il suo caso è un esempio perfetto della piena disponibilità in merito di un personaggio dotato di realismo. Per anni egli ebbe un atteggiamento benevolo nei confronti dei futuristi e fece costruire stazioni ferroviarie e condomini d'avanguardia. Nella periferia di Roma alla fine degli anni trenta si vedeva un numero di condomini d'avanguardia maggiore che in ogni altra città del mondo. Forse il fascismo voleva esibire la propria modernità per nascondere il fatto che rappresentava invece il regresso; forse intendeva conformarsi ai gusti di quell'élite del denaro ai cui servizi si era posto. In ogni caso sembra che Mussolini abbia infine compreso che sarebbe stato più utile per lui adeguarsi ai gusti culturali delle masse italiane piuttosto che a quelli dei loro padroni. Alle masse si devono offrire oggetti d'ammirazione e stupore; i padroni possono farne a meno. Vediamo così che Mussolini annuncia un "nuovo stile imperiale". Marinetti, de Chirico e gli altri sono messi in ombra, e la nuova stazione ferroviaria di Roma non sarà d'avanguardia. Il fatto che Mussolini sia pervenuto a ciò in ritardo serve a meglio illustrare la relativa riluttanza con cui il fascismo italiano ha tratto le necessarie considerazioni del proprio ruolo. Il capitalismo in declino ritiene che tutto ciò che di qualità riesce ancora a produrre divenga quasi invariabilmente una minaccia alla sua stessa esistenza. I progressi della cultura, non meno dei progressi della scienza e della tecnica, corrodono la società stessa sotto la cui egida si sono resi possibili. In questo caso, come in ogni altra questione d'oggi, diventa necessario citare Marx alla lettera. Oggi non guardiamo più al socialismo come al portatore di una nuova cultura, dal momento che questa apparirà inevitabilmente unica una volta che il socialismo sia stato realizzato. Oggi guardiamo al socialismo "semplicemente" per la conservazione di ogni cultura viva esistente. P.S. Con costernazione ho appreso, anni dopo che questo mio scritto era stato dato alle stampe, che Repin non ha mai dipinto una scena di battaglia; avevo dunque attribuito a lui dipinti di qualcun altro. Ciò dimostra soltanto quale fosse il mio provincialismo nei confronti dell'arte russa del diciannovesimo secolo. I commenti sono chiusi.
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AUTORE:
Eleonora De Simoni Categorie
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Settembre 2024
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