Non andavo ad un’ esposizione di pittura da moltissimo tempo. Un po’ perché saturata, anestetizzata e nauseata dal troppo ''guardare -e fare- pittura'' e un po’ perché stanca di guardare opere completamente decontestualizzate e lontanissime dall’ esperienza creativa che le ha generate. Da anni ormai, quando, con la massima buona fede, qualcuno mi chiede: ''Eleo, andiamo a vedere la mostra di … (un nome a caso, iper-storicizzato/iper-feticizzato o sepolto tra le lattine di birra da 20 centesimi vuote dell’ ultimo dei centri sociali) entro in uno stato di intorpidimento, di sonno, di trance, di annebbiamento, di pigrizia cosmica, di morte dell’ entusiasmo, di voglia di usare gli ultimi residui energetici per scappare lontano e andare a suonare la fisarmonica. Ci ho provato ancora qualche volta, ma era diventato un po’ come osservare involucri vuoti, un tempo abitati -per alcuni istanti- da freschissima e gloriosa zoé ed ora ridotti a corpi morti appesi a un muro, feticci esauriti e vagamente patetici sui quali riversare le proprie proiezioni o -peggio- attraverso i quali raccogliere le proiezioni del curatore, del critico, dello storico, del commerciante di turno, facendole -per pigrizia soprattutto- proprie. Esperienze degne e legittime per chi ne abbia necessità, ma che per me, in questo momento sanno troppo di ‘’forma’’, di attaccamento, di passato-e-futro, di anti ‘’hic et nunc’’, di stasi, di ego, di loop auto-contemplativo, di prigione, di sonno. Questa esposizione è stata completamente diversa. Lo scorso anno ho visitato lo studio di Küsnacht nel quale Jung riceveva i suoi pazienti e quest’ anno ho potuto vedere le immagini che lì dentro -e dentro la relazione analista-paziente- hanno preso forma: immagini fisiche che raccontano delle ‘’immagini vere’’. Andarci è stata un’ urgenza. Una gioia. Ci sono andata con la mia famiglia: era prezioso per me raccogliere le impressioni semplici e senza pregiudizio dei bambini e quelle appartenenti ad un altro universo di mio marito. Mi sono relazionata a questi dipinti dopo una lunga meditazione. Non ho letto nulla a proposito dell’ esposizione (anche perché era tutto in tedesco, lingua -per me/per ora- appartenente alla testa e non al cuore). Ho cercato -per quanto possibile- di lasciare fuori dal Lagerhaus tutte le mie aspettative, tutti i miei pregiudizi, tutte le mie idee, tutte le nozioni che ho accumulato in modo a volte ossessivo. Ho cercato di entrare ben radicata e ben centrata, in modo che la relazione con ogni manufatto fosse della qualità più semplice e sottile possibile. Vi erano dipinti di vario genere: alcuni iper-difesi, tecnicamente sorprendenti o accompagnati da testi e frasi tipicamente Junghiane che sembravano appartenere a pazienti colti, forse un po’ ‘’fan’’, e in fase di inflazione analitica. Altri, invece, parlavano direttamente all’ anima, nella sua lingua madre che è il silenzio. Come minuscoli buchi neri ti inghiottivano, ti portavano per alcuni brevissimi istanti in ''quell' altrove'', ti mostravano alcune tessere dell’ immenso mosaico dell’ inenarrabile, il ''fiume di sotto'', quello che a volte irrompe -dolcemente, se siamo fortunati- e incrina la superficie del sistema di pseudo-certezze al quale viviamo disperatamente aggrappati, rivelandoci un rapido riflesso della remota luce del numinoso. Gli ultimi 20 minuti sono rimasta completamente sola nel museo. Immersa nel silenzio, in quelle immagini intime e generose, conservate con una cura sorprendente, che galleggiavano in una luce dorata e surreale mischiata al profumo e al suono del legno che cedeva sotto ogni passo. Mi sono sentita un po’ immagine, un po' umano, un po' analizzanda, un po’ analista, un po’ ‘’voyeur’’, un po’ sorella -in senso cristiano-, un po’ tutte queste cose insieme simultaneamente. Un’ esperienza ricca di Senso! Ci sono ancora 3 giorni di tempo per visitarla. I commenti sono chiusi.
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AUTORE:
Eleonora De Simoni Categorie
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Settembre 2024
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